1.30.2008
Scomunicazioni
E come passare sotto silenzio il sedicente "blog più stupido del mondo" di Maurizio Codogno?
salivazione
sul treno delle cinque e diciannove
una prostituta nera per vagone
poi io
Venezia è fredda
è come una puttana senza cuore
sul finire della notte e del candore
senza dio
lungo la strada
pensieri senza sonno senza amore
un siero appiccicoso, stilla incolore
nel buio
Ineradicable Stain
Ho conosciuto Shelley grazie a un documentario di
Paolo Cognetti, Il lato sbagliato del ponte.
Shelley ha scritto un racconto, Skin; il progetto è di tatuare tutto il racconto addosso a dei volontari, una parola per volta. Queste persone, dopo essersi tatuate, diventano a tutti gli effetti parole.
Se volete saperne di più sul progetto Skin andate qui.
Sarò presto anch'io una parola, ma forse lo sono sempre stato...
Grazie Shelley.
This Shelley Jackson's project fascinated me from the start. I knew about that watching a Paolo Cognetti's documentary, The Wrong Side of the Bridge.
Please have a look at the amazing project that is Skin.
I'll soon be a word too, but maybe I've always been...
Thanks Shelley.
Guido!
Non c'ero al Goganga, Guido...
Guido!
Non ho la macchina io, non guido, Guido!
Guido!
Non ho ancor scritto la mia ecloga a te ispirata, Guido,
ma non per questo non son uomo di gusto e sensibilità d’altri tempi, Guido!
Non c'avevo l'ispirazione, Guido!
Quando cazzo arriva l'ispirazione, Guido?
Mica ti faxa prima,
mica ti meila...
Dimmelo che c'ho gusto e sensibilità anch'io!
D'altri tempi, Guido!
E mancavo solo io del trio,
ma eccomi insomma, guarda che brio, Guido!
Ti ricopro di brio, Guido!
Ti invento un ritmo che ci compriamo una Ritmo Cabrio, Guido!
Guidi tu però, in caso.
Ti legge anche mia sorella, Guido, che le piacciono i Guns'n'Roses.
Ti rendi conto Guido?
Ti lancio verso lo spazio intergenerazionale,
altro che Capitano Kirk, Guido!
Si sta come
in Scighera
Catalano
sul palco.
Tutti dovete comprare subito Motosega di Guido Catalano: è cosa buona e giusta.
1.29.2008
Attesa
Stare solo, senza parlare con nessuno, narcotizzarmi.
Una scorta sufficiente di batterie di ricambio. Questo mi basta. Non posso più smettere di ascoltare questo disco. Meshuggah, Catch 33. Da mesi, senza sosta, spostandomi continuamente, vivo immerso in questa musica, vivo grazie a questa musica. Più o meno dal giorno in cui ho parlato con l’oncologo.
Parlare è una parola grossa, perché io, in effetti, sono rimasto lì inerte a subire le sue parole attente, le sue frastornanti delucidazioni. Mentre il dottore parlava, ripassavo mentalmente i pattern ritmici più intriganti di Catch 33. In lingua ebraica meshuggah significa “folle”. Quando ci penso mi viene sempre in mente la leggenda dell’Ebreo Errante. Forse perché è proprio questo che sono diventato, un essere nomade, in fuga continua, anestetizzato dal silenzio assordante di ciò che mi attende, di ciò che mi cresce dentro, da qualche parte. Il dottore ha voluto essere schietto – voglio essere schietto con lei –, ha trovato inutile tergiversare sulla cosa – trovo inutile tergiversare sulla cosa –, mi ha detto come stanno le cose fin nei minimi dettagli – le dirò le cose come stanno fin nei minimi dettagli.
Proprio in quell’istante io ero giunto mentalmente alla parte centrale del disco, quella più atmosferica, quasi ambient, in cui la voce di Tomas Haake, trasformata dal vocoder, recita quelle parole così taglienti, così pesanti. Parole che mi tengono in vita come amuleti taumaturgici:
Treacherous this deceit / to make no choice matter / To have and yet lose yourself / until finally all reasons why are forgotten / To live through one’s own shadow / Mute and blinded / is to really see / Eclipse the golden mirror / and the reflection is set free.
Se l’oncologo avesse potuto sentire quei versi rimbalzarmi in testa come fiammeggianti sfere di cristallo, avrebbe capito. Avrebbe visto la situazione in un’ottica diversa, allora, abbandonando la sua logica così banalmente meccanicista. Invece disse: – Dobbiamo operare il più presto possibile. Non c’è tempo da perdere.
Ma io ero già in viaggio e non sentivo più nessun tipo di dipendenza dal tempo. Con la mente, ero già proiettato alle probabili tappe del mio esilio spirituale: Agrigento, Barcellona, Lisbona, Praga, Budapest, Bruxelles, Amsterdam, Copenhagen, Stoccolma, Umea.
– Mi dispiace dottore, ma dobbiamo rimandare il mio ricovero. Sto per partire per un viaggio, un lungo viaggio – mi sentimmo dire, io e l’oncologo.
La sera stessa sono montato sul primo treno che mi sono trovato davanti: Vienna. Ho iniziato a tenere un diario dettagliato dei miei spostamenti. A Vienna ho dormito da vecchi amici che già anni prima avevo promesso di andare a trovare, senza mai riuscirci. Ma ora, improvvisamente, avevo tutto il tempo che volevo a mia disposizione.
– Si tratta di pochi mesi. Non posso darle maggiori speranze, nella sua situazione – questa la lapidaria valutazione dell’oncologo. Eppure, quei pochi mesi ipotetici mi apparivano come un intero universo, improvvisamente calato a circondare la mia essenza, a proteggerla come un antisettico, eterno guanto di lattice.
Posso dirlo: sono stato felice, da quel momento in poi, e lo sono ancora. La solitudine non riesce più a toccarmi. Ho qualcosa di cui scrivere, le parole mi escono dalla penna senza bisogno di metterle prima in ordine nella testa. Percepisco una sinuosa ispirazione scanalare le mie ossa, portare alla luce verità celate da una lunga prigionia nella sudicia voliera del tempo.
Da Vienna mi sposto a Lubiana, poi in Kosovo, poi di nuovo su a Nova Gorica. Seleziono attentamente i treni più diretti. Nonostante tutto, non mi va di perdere tempo nei cambi. Dall’ex-Jugoslavia prendo un battello per la Puglia. Bari, Reggio Calabria, poi la Sicilia.
Lercara Friddi. Vado in cerca di tutto e di niente, una ricerca archeologica, ma anche archetipica. Ma nessuna risposta, nessun racconto mi possono ormai soddisfare. Non avere più coscienza della differenza fra verità e menzogna, ecco cosa voglio.
I float through physical thoughts / I stare down the abyss of organic dreams / All bets off / I plunge / Only to find that self is shed
Risalgo l’Italia e l’Europa: Budapest, Praga, Bratislava. Sono convinto che, spostandomi continuamente e dovendo ogni giorno ricalibrare le mie coordinate linguistiche, culturali e metereologiche, anche l’intrusa concrescenza di materia necrotica incastrata da qualche parte nel mio corpo si troverà disorientata, costretta a sforzi sempre maggiori per sopravvivere, per sopravvivermi. Bruxelles, Gent, Amsterdam, Utrecht, Harleem, e infine Copenhagen. Sono io ora l’intruso, l’organismo parassita. Io stesso sono divenuto un cancro per il mio cancro. Lo sentivo salire già da mesi, dal rene sinistro attraverso il sistema linfatico, verso le pareti laterali dei polmoni, lo stomaco, verso la parte superiore del mio corpo, i centri vitali fondamentali, come un virus che di terminale in terminale si propaga in una rete, con una lentezza feroce. Ora io lo costringo a una schizofrenica deambulazione, a un’altrettanto feroce assenza d’immobilità.
Drowning in the endless sky / An ever-downward dive / only to surface the sewage of indecision / on which all sense of self is afloat
The vortex-acceleration a constant / Resolute in purpose its choking flow
Percorro a piedi il lungo ponte sull’Oresund, una lingua aliena piovuta per caso sul mare del Nord. Finalmente in Svezia, ma il viaggio è ancora lungo e le condizioni atmosferiche sono sempre più avverse. Da qui in poi mi muovo solo attraverso autostop. La notte frequento assiduamente pub, discoteche, night club e tutte le attrazioni notturne offerte da questi luoghi in cui la notte sembra non finire mai. Dormo un po’ dove capita. I soldi finiscono in fretta, ancora prima di arrivare a Stoccolma.
Passano due mesi in cui rischio seriamente di morire di fame, vivendo per la strada, a Orebro, non distante dalla capitale, con un freddo spietato a mangiucchiarmi le ossa.
Mi piacerebbe telefonare al mio dottore, fargli sapere che sono ancora vivo, dopo quasi sei mesi, contro le sue previsioni, e che se morirò sarà per fame, per mancanza di cibo, di qualcosa da divorare, e non divorato dal cancro. Nemmeno dilaniato dall’attesa. Ma ormai il tempo non ha più alcuna forma, alcun valore per me. L’unico ritmo a cui la mia esistenza si allinea, a cui la mia mente si piega è quello della musica che ascolto ininterrottamente. Non mi sento più nemmeno umano, avrei dovuto essere già morto. Forse lo sono e non lo ricordo.
A stagnant flow of endings. Un-time unbound. Merging to form the multi-none
Forse questo è solo un sogno. Un sogno di qualcun altro.
Se nel mio corpo esiste veramente un altro corpo, se nel mio essere si è insinuato un altro essere, se la mia mente è un labirinto di specchi in frantumi... Che cosa mai dovrei attendere? Perché dovrei arrendermi alla vuota forma dell’attesa? Perché dovrei rimanere immobile finché mi è concessa l’effimera medicina della fuga? Finché posso pensare, scrivere, ricordare...
Ricordi della mia infanzia, di mio padre. Ero solo un bambino e non sapevo ancora nulla della vita, della morte. Ma facevo tante domande a mio padre, sulla vita e sulla morte. E c’era una cosa che lui finiva spesso per dirmi: - Sai, io vorrei morire facendo l'amore con una donna, e non marcendo lentamente in un letto d’ospedale.
Io non capivo, ma rimanevo affascinato da queste parole, profondamente affascinato.
E solo ora capisco.
Per questo non mi posso fermare, nemmeno per un secondo.
Troverò un modo per arrivare a Stoccolma, prima o poi; m’imbarcherò su un peschereccio o qualcosa di simile. Non è un lungo viaggio fino a Umea, in nave.
Là incontrerò i folli artefici, esibirò una risultanza frattale della loro schizoide creazione, diverrò tutt’uno con i mille esseri che vivono in di me, uno nel tutto in cui tutti siamo.
Tat Twam Asi.
Vision will blind / Severance ties / Median am I / True are all lies
1.25.2008
Il poster della Juve
se lo chiamiamo istinto non diciamo nulla.
Johan Huizinga
Num mundo sem religião, o futebol è a religião moderna e os jogadores, os ídolos.
O jogador è o sacerdote: oficia por nós. O estádio è a catedral.
Ruy Belo
Quella sera avrebbero giocato coi grandi, pensò Daniele, appena sveglio.
– Butei, doman se zuga coi grandi – li aveva informati Salvoro la sera prima. Nessuno aveva avuto il coraggio di obiettare nulla. Salvoro era il boss, al campetto dettava legge lui, quello coi piedi buoni. Daniele lo odiava e lo amava insieme: Salvoro era un prepotente, un violento, ma col pallone faceva numeri incredibili per un bambino della sua età. Quando si stava in squadra con lui gli si poteva perdonare tutto. Ma sfidare i grandi no, né Daniele né gli altri della cricca di Salvoro, in cuor loro, credevano fosse una bella pensata: invitare i ragazzi più grandi nel loro campetto significava offrirsi spontaneamente a un massacro di pedate, pestoni e calcioni sugli stinchi, mettersi alla mercè della cattiveria di giovani delinquenti del calibro di Busato, Falesso, Gaiga e così via, gente che stava ripetendo la terza media e nemmeno per la prima volta, rifletteva Daniele rigirandosi nel letto, per non parlare del fatto che girava voce che i tre vendessero sigarette e goldoni nei cessi della scuola, e chissà cos’altro ci facevano che ci passavano tutta la mattina e nessuno aveva il coraggio di andare a vedere, nemmeno gli insegnanti e tanto meno il preside, cosa diavolo combinassero quei tre nei cessi; si sapeva solo che, di quando in quando, lasciavano entrare delle ragazze, ma solo le più grandi, e se ne raccontavano di tutti i colori su cosa succedesse nei bagni in quelle occasioni, i traffici loschi venivano sospesi, si chiudevano le porte dei bagni addirittura a chiave e due tirapiedi si piazzavano fuori di guardia. Poi un giorno la Cristina Businaro non è più venuta a scuola e tutti dicevano che era incinta.
Un suicidio collettivo bello e buono insomma, giocare a calcio con quelli, e tuttavia nessuno si sarebbe messo a discutere con Salvoro cercando di fargli cambiare idea. In fondo, riflettè Daniele, tutta la banda si fidava ciecamente di lui: chi per il furore agonistico che sprigionava in campo, chi per il suo tasso tecnico, chi per la sua dimestichezza nel menar le mani, chi per il suo impareggiabile fiuto per i nascondigli segreti di giornaletti porno. Si affidavano alla sua esperienza in ogni frangente, si alimentavano quotidianamente del suo carisma; lo odiavano, ma era il loro unico punto di riferimento. In classe, rammentava Daniele, Salvoro aveva dato non pochi saggi della sua indole. Per prima cosa, fin dall’inizio dell’anno, Salvoro si era auto-investito del diritto a portare in classe materiale pornografico e farne bella mostra sul banco, con speciale scrupolo nelle ore di religione; in seguito, durante una zuffa scoppiata con Gaiga per cause imprecisate, Salvoro era riuscito a omaggiarlo di un bel cartone in faccia, ricevendone in cambio almeno una decina, e di ben altra fattura, di cartoni, e rifugiandosi poi in classe con un occhio nero, dolorante e piagnucolante, nondimeno un vero eroe agli occhi pavidi e immaturi di cazzotti di Daniele e compagni, l’unico alunno della scuola che avesse avuto il coraggio di alzare le mani contro Gaiga, un esponente di spicco della Combriccola dei Bagni; e infine, il vero capolavoro di Salvoro, un atto talmente audace che nemmeno i grandi avevano mai osato tanto, e proprio per questo non si sarebbero sottratti alla sua sfida, anzi: smaniavano di ribadire in pubblico la propria reputazione di bulli, nonché di infliggere una dura lezione al marmocchietto che s’illudeva di poter competere con loro a suon di note sul libretto e sospensioni. Daniele si alzò dal letto, entrò in bagno e rievocò l’evento mentre si lavava i denti.
Era successo pochi giorni prima. L’entusiasmo per il primo storico scudetto vinto dall’Hellas Verona era alle stelle e tutti avevano portato in classe i poster dei Campioni d’Italia 1984–85 da appendere. Le due pareti lunghe della classe, normalmente rivestite da pannelli di compensato marino, erano ricoperte quasi per intero di poster gialloblù. Fatto sta che l’insegnante di scienze era juventina e, in mezzo a gigantografie di Pierino Fanna, pose laocoontiche di Preben Larsen Elkjaer, primi piani di “Nanu” Galderisi, una caricatura di Osvaldo Bagnoli disegnata da Forattini e sfavillanti foto di squadra in tutte le salse, aveva pensato bene, l’impavida, di esporre un poster della Juve, fra l’altro vecchio come il cucco (Coppa UEFA 1976–77). Quel giorno e il successivo Salvoro aveva fatto berna: per nulla interessato alle lezioni, indipendentemente dalla fede calcistica dell’insegnante, aveva preferito spendere un paio di mattine scorrazzando per il paese in motorino (inculato a suo fratello) a festeggiare l’Hellas. Ma già il terzo giorno era tornato a scuola. Daniele, con lo spazzolino fra i denti, ricordò di aver pensato che Salvoro doveva avere le sue buone ragioni per sospendere la berna così presto. In effetti Salvoro, di buone ragioni ne aveva eccome, ne aveva di ottime ne aveva. Era entrato in classe con un tubo da architetto in mano e una strana, inedita, espressione sul volto, scaltra ed ebete a un tempo. Daniele stava giocando a figu con un compagno ma, intuendo che qualcosa di grosso stava bollendo in testa a Salvoro, aveva mollato a metà una partita di muretto molto promettente. Salvoro, individuato uno dei pochi spazi vuoti sui pannelli di legno, aveva dato il via a un oscuro e seducente cerimoniale: aperto il tubo, ne aveva estratto con cura un poster gialloblù, quindi lo aveva srotolato e puntinato sul legno, restando a lungo fermo a rimirare la propria opera e condendo il tutto con una sprezzante grattatina alla gioielleria di famiglia. Si trattava di un ennesimo poster celebrativo del capocannoniere dell’Hellas, Giuseppe “Nanu” Galderisi (12 reti ), non dissimile dai numerosi altri appesi lì attorno, tranne che per un particolare, e non proprio uno qualunque. Era autografato.
Un poster di Galderisi autografato. In basso a sinistra, pennarello nero, indelebile. No, anzi! Di più! Autografato con dedica: “Al mio amico Rudy Salvoro, con affetto. Nanu Galderisi”. Ad maiorem dei gloriam. Daniele rivide la scena come fosse proiettata nello specchio del bagno e, nonostante il dentifricio, riscontrò in bocca il sapore dell’invidia che quel cimelio aveva generato. Non poteva non odiare Salvoro per l’ostentazione di quel privilegio, ma nemmeno poteva non essergli grato per aver condiviso quella visione tanto preziosa.
Salvoro era rimasto a lungo fisso davanti al suo poster autografato più dedica, continuando placido con il ravanamento della zona pelvica, come innanzi a una donna nuda, senza proferire parola – certo, fra sé e sé chissà che bestemmioni di gioia stava tirando – pronto a gustarsi ogni milligrammo di meraviglia partorito dalla classe: l’indolente appropinquarsi dei curiosi, i dio bon e i vacca dì di stupore che si levavano qua e là, i primi concitati commenti, le prime timorose domande sulla provenienza dell’immagine sacra. Quando si fu saziato a dovere della propria spocchia e di toccamenti vari alle parti basse, Salvoro si era rivolto al capannello di compagni alle sue spalle col cipiglio di un attore che si appresti a improvvisare una conferenza stampa. Così facendo, non aveva potuto fare a meno di notare l’anomala patacca bianconera nel mare di manifesti gialloblù sulla parete opposta. Bastò un battito di ciglia e la faccia di Salvoro era tornata il grugno scimunito e collerico di sempre. A quei tempi girava la voce che Salvoro fosse un ragazzino così aggressivo perché suo padre era comunista e lo educava da comunista, valutò Daniele tornando a infilarsi a letto. Certo è che, in una botta sola, il piccolo proletario si era reso protagonista di ben tre imprese degne di rivaleggiare con le gesta dei mascalzoni più grandi e più quotati di lui, e i cui padri millantavano ideali politici ben diversi dal suo. Proprio mentre l’insegnante stava entrando in classe, Salvoro, con tutto lo sdegno virile di cui fu capace la sua voce di bambino (di compagno?), aveva articolato un nitido ma dio can!, indi si era avventato con furia cieca sull’icona celebrativa dei “gobbi” e infine l’aveva strappata in mille pezzi, scatenando una solidale ilarità fra i compagni di classe, anche i più civilizzati, i meno interessati al calcio – le donne – e i più capitalisti. L’insegnante, dopo aver assistito inorridita alla scena, aveva investito Salvoro con una pletora di reprimende e minacce disciplinari: – Maleducato che non sei altro! Fila subito dal preside brutto screanzato! Tu attacchi i tuoi poster e gli altri non possono? Fai i tuoi porci comodi, vieni a scuola quando ti pare e vorresti anche dettare legge? E come ti permetti di bestemmiare in classe, si può sapere? Ma vedrai stavolta, ti becchi una nota così lunga che non ci sta neanche sul libretto! Se i tuoi genitori non sono capaci, te la do io una bella lavata di capo! Io ti faccio sospendere, altro che! Un bel sei in condotta ti ritrovi… – e così via.
Salvoro aveva incassato impassibile la strigliata mentre sfogava la sua ira iconoclasta (marxista?) sul feticcio bianconero, ma doveva aver colto un indizio rivelatore nella tirata dell’insegnante – non era poi così tonto – visto che, a un certo punto, si era gonfiato tutto, le si era avvicinato e con occhi straripanti disprezzo e orgoglio scaligero aveva replicato:
– Parché? Sito stà tì a tacar via ‘sta merda?
I risolini si erano zittiti di colpo e sulla classe era calato il gelo. L’insegnante era tornata alla carica, idrofoba più che mai: – Salvoro! Pulisciti la bocca prima di parlare! Dove credi di essere mocciosetto? Sì, sono stata io ad attaccare il poster della Juve, e allora? Ognuno è libero di avere la sua squadra del cuore e di appendere in classe quello che vuole. Non esiste solo il Verona sai? Cos’è, perché hai vinto uno scudetto credi di avere il mondo in mano?
Daniele si alzò di nuovo dal letto, eccitato dal ricordo. Si mise a fare ordine fra i Topolino e gli Alan Ford, ripetendosi sottovoce il predicozzo dell’insegnante di scienze, più e più volte, fino a cristallizzare nella memoria l’esatta sensazione che aveva provato in quegli istanti, il gusto sedizioso di quell’esperienza temeraria e cruciale. Ora, mi rendo conto che quest’analogia vi sembrerà azzardata, ma vi posso assicurare che il nostro buon Daniele, mentre scartabellava nervosamente fra i suoi fumetti, e più tardi quella sera, chiudendo con Salvoro un preciso triangolo e infine trafiggendo un certo Scartozzon per il dieci a nove finale (al campetto si giocava sempre al dieci), e più oltre, discutendo la sua tesi di laurea su “Il calcio come archetipo culturale primordiale” di fronte a una commissione assonnata e ostile, e – credetemi – per tutto il resto della sua vita, il nostro marmocchio quell’episodio lo avrebbe serbato marchiato a fuoco nell’anima come un tatuaggio diafano, un imprinting primigenio, un vero e proprio sacramento.
Perché hai vinto uno scudetto credi di avere il mondo in mano?
Salvoro si era accostato all’insegnante e la osservava muto, come a concederle il diritto di riflettere bene su ciò che aveva detto. Esaurita l’inerzia dell’accaloramento, la donna stava schiumando dalla bocca, grifagna, senza riuscire più ad articolare parole. Ristettero così, a fronteggiarsi come bestie, per anni interi, mentre Daniele sfogliava l’ultimo numero di Tex Willer, e mentre veniva proclamato dottore da un cattedratico frustrato che non aveva mai toccato un pallone in vita sua, e mentre contava tenendo la mano di Sonia per non perdere il ritmo delle contrazioni, finché, il giorno prestabilito, rivide tutta la sua vita scorrere all’indietro mentre un embolo occludendogli l’aorta arrestava il flusso arterioso nel suo corpo, spaccandogli il cuore, un solo battito dopo che il pallone, colpito di collo esterno, si sganciasse dal piede per schiantarsi sull’incrocio dei pali. Rimessa dal fondo.
Perché hai vinto uno scudetto credi di avere il mondo in mano?
Salvoro aveva risposto: – Tasi ti, bruta roia juventina!
E Daniele lo aveva capito subito – lo ricordava vividamente mentre sua madre lo chiamava a fare colazione – aveva capito che doveva scegliere, che era giunto il momento. Dapprima con una voce flebile, poi via via sempre più forte, Daniele aveva iniziato a recitare la sua preghiera, a proclamare il proprio credo, a enumerare i propri numi:
– Garella, Spuri, Ferroni, Fontolan, Fabio Marangon, Luciano Marangon, Tricella, Volpati, Briegel, Bruni, Di Gennaro, Donà, Sacchetti, Elkjaer, Fanna, Nanu, Turchetta. Hellas Campione d’Italia!
Il ragazzino si sedette in tavola e sua madre gli servì tè e biscotti. Egli prese due Galletti, li unì l’uno contro l’altro e creò un Doppio Galletto. Lo tuffò nella tazza di tè e, prima che l’insolito amuleto si sfaldasse, se lo sparò in bocca vorace.
Quella sera avrebbero giocato coi grandi.
1.23.2008
Probot
Mentre ascoltava distrattamente le parole del suo primo cancelliere, prono di fronte a lui, il Re di Probot assunse la posizione della Cautela Regale, ritto in verticale, tenendosi in equilibrio sul capo. Prima di prendere la parola a sua volta, il Re portò la mano sinistra a coprirsi in parte la bocca, nella manovra che è chiamata della Sottile Perplessità: - Beta 4.2 dici, mio fedele Tbor... Non è la prima volta che mi trovo di fronte a una sospetta variante Beta del ''Messaggio Universale di Cordialità'', o sbaglio? - domandò.
- Mai succeda che l'Impareggiabile Saggezza Reale cada in errore, Mio Signore. Non è la prima volta, certo - rispose Tbor, malcelando una certa agitazione.
- E non è forse vero che le sospette varianti Beta incontrate in precedenza si sono rivelate banali simulazioni, goffi tentativi di penetrare le impenetrabili difese di Probot da parte di razze tanto ignote quanto sprovvedute? - incalzò il sovrano.
- Questo è certamente vero, Rilucente Splendore di Probot - mentì Tbor che, ahilui, conosceva il copione a menadito.
Era ormai da lungo tempo che il Regno di Probot rispondeva al ''Messaggio Universale di Cordialità'' trasmesso dalle navicelle aliene di passaggio disintegrandole senza pensarci due volte, con la scusa che la forma del Messaggio non corrispondeva a quella riconosciuta come originale da Probot, la variante Theta 1.1. Un pretesto come un altro per non fornire ospitalità e ristoro agli occasionali visitatori di quella remota regione dello spazio, violando così gli accordi del ''Trattato Interrazziale di Pace''. Questa la linea di condotta dettata da Re Ktobron VII: il delirio protezionista e isolazionista di un sovrano divorato da una follia senza via d'uscita.
La tipica follia da solitudine dello spazio profondo.
Ma Tbor e gli altri membri del consiglio non demordevano, tentando in tutti i modi di far rinsavire Ktobron; sapevano bene che questo gioco non poteva continuare a lungo. L'universo è sconfinato, ma anche in uno spazio infinito le voci girano più rapide di quanto si possa immaginare. Prima o poi qualcuno sarebbe venuto a presentare il conto a Probot per le sue azioni criminali... Qualcuno dotato di missili spaziali a carica antimaterica implodente, magari... E allora l’intero pianeta avrebbe pagato il prezzo della sventatezza del proprio sovrano.
Prima di continuare, Tbor tirò un respiro profondo: - Tuttavia, se l'umile cancelliere di Vostra Imperitura Grazia potesse esprimere un'osservazione personale sulla questione...
- Tbor! - lo interruppe subito il Re, tuonando minaccioso e compiendo una leggiadra giravolta su sé stesso. Era così balzato in posizione eretta, con le mani a coprirsi le tempie: la posizione del Lobo Ferito. La figura imponente del sovrano incombeva su Tbor, ancora prono e tremante, come un nubifragio pronto a scatenarsi su di lui: - Da quanto tempo né tu né alcun altro membro della corte esprime una qualsiasi opinione personale durante un colloquio con me?
- Da quasi venti cicli Vostra Incommensurabile Eloquenza - rispose Tbor, trattenendo a fatica un commento personale sull'argomento.
- E dimmi Tbor, figlio di Trob che fu consigliere del mio Splendente Padre, perché mai non vi viene permesso di esprimere opinioni personali? - continuò il Re, col tono di chi recita una liturgia particolarmente complessa.
Tbor alzò leggermente il capo da terra e si guardò attorno, cercando solidarietà nella folta schiera di funzionari del Regno disposta a emiciclo alle spalle del Re. Non che sperasse veramente in qualche tipo di sostegno; si trattò più che altro di un riflesso incondizionato.
- I membri del consiglio non esprimono opinioni su alcunché perché l'Abbacinante Luce del Mattino già conosce ogni più sottile piega dell'universo; nel cosmo intero nessun pianeta rifulge prospero quanto Probot, la gemma prediletta, l'astro predestinato - declamò Tbor, senza troppa convinzione.
Sua maestà rilascio le braccia lungo i fianchi e, per la prima volta, parlò senza assumere alcuna posizione rituale: - Esattamente, l'astro predestinato... La nobile stirpe di Probot non permetterà a razze primitive e barbare di contaminare il proprio spazio vitale.
- Il Luminoso Destino di Probot ci obbliga a restare isolati dal resto dell'universo, a percorrere da soli l'impervia via della conoscenza, qualsiasi cosa questo comporti, qualsiasi perdita, sacrificio od olocausto.
Il volto di Ktobron venne scosso da un fremito e i suoi occhi si velarono di rosso purpureo. Un liquido viscoso fluì sulle sue retine scaturendo da sotto le palpebre. Il Segnale Regale dell’Attacco.
- Che le milizie di Probot s’approntino per la battaglia! Che vengano armati i mortai laser! Che la nave aliena venga distrutta! – decretò Ktobron, sputacchiando saliva come un invasato.
Tbor e gli altri membri del consiglio, per l’ennesima volta, abbassarono il capo davanti alle folli decisioni del proprio sovrano. A uno a uno, inserirono gli anulari nei circuiti di comunicazione impiantati sotto i lobi, per trasmettere gli ordini di Ktobron ai generali dei diversi corpi militari di Probot. In qualità di primo cancelliere, spettava a Tbor allertare il presidio orbitale e dare l’ordine di armare i mortai all’iridio laser; tuttavia Tbor indugiò per diversi secondi, l’anulare piantato nel freddo alloggiamento sotto la tempia destra, prima di far scattare la falange e aprire il canale di trasmissione.
Venti cicli.
Da venti lunghi cicli Tbor ripeteva gli stessi gesti, rendendosi complice del folle Ktobron nella distruzione di inermi navi aliene, e, nonostante tutto, non riusciva ancora a dare il fatale ordine con la disinvoltura consona a un diplomatico del suo rango. Ogni volta si fermava un attimo e pregava, fra sé e sé, rivolgendosi a un dio che non credeva veramente potesse esistere (perché gli abitanti di Probot credono in un solo dio: il Re di Probot), un dio lontano, primigenio, un dio dello spazio profondo che Tbor riusciva a concepire solo in un recesso dell’anima altrettanto profondo; eppure egli pregava, ogni volta, attardandosi con l’anulare inserito nel circuito neurale, muovendo le labbra impercettibilmente: - ''Ti prego... Se mai tu esista, in qualche angolo di quest’universo nero, in qualsiasi forma tu possa manifestarti, io ti prego: interrompi questa follia. Poni fine al delirio di Ktobron, Re di Probot. Dio mio, ferma questa follia...''
La falange di Tbor scattò sul relais neurale, attivando la comunicazione con il comandante della stazione orbitale: - Generale Krobb, qui parla Tbor, primo cancelliere dell’Eterna Scaturigine di Verità, Ktobron VII, Splendente Re di Probot.
Tbor esitò ancora un attimo, continuando a pregare nel proprio intimo, fuori dalla portata di qualsiasi connessione neurale. Poi diede l'ordine: - Generale Krobb, armate i mortai all’iridio. Questo è il volere ineffabile dello Splendente Ktobron VII. Puntate i cannoni contro la navicella aliena e...
Tbor fu costretto a lasciare la frase a metà, perché una voce terribilmente turbata intervenne sulla frequenza d’emergenza, in modo che tutti, nella Sala Reale del Consiglio, potessero sentirla: - Qui Sentinella B12, settore orbitale Sigma 3, rapporto urgente, codice rosso: una nave aliena di proporzioni immense è improvvisamente apparsa sopra Probot! È enorme, non ho mai visto nulla del genere… - la voce della sentinella tradiva un’angoscia assoluta.
Immediatamente, Ktobron e i membri del Reale Consiglio vennero collegati in neurovideo con la postazione Sigma 3. Ciò che videro giustificò abbondantemente la disperazione della sentinella. Urlando, in preda al panico, si diedero tutti scompostamente alla fuga, cercando di raggiungere le servo-capsule di salvataggio del Palazzo Reale. Tutti tranne Ktobron (sebbene pazzo, era pur sempre un Re) e Tbor, che rimase immobile nella sua posizione prona.
Ktobron non disse nulla, chiuse gli occhi e assunse la postura regale dell'Ultima Meditazione, sospeso a mezz'aria, rannicchiato come un feto nella placenta. Da questa posizione non si sarebbe più mosso, qualsiasi cosa fosse successa.
Tbor non riusciva a distogliere lo sguardo della propria mente dall'impossibile struttura aliena che si avvicinava al pianeta, sempre più minacciosa. Gli appariva come un mastodontico impianto di smaltimento rifiuti...
Era una nave spaziale immensa - se mai fosse realmente una nave - con una massa volumetrica quasi tripla rispetto a quella dell'intero Probot, e lo ricopriva come un manto funebre. Dal telaio centrale dell'ignoto oggetto, roteante e di forma ovale, pendevano strane strutture affusolate, tentacoli meccanici lunghi almeno quanto il diametro del pianeta. Lentamente, ma inesorabilmente, l'oggetto alieno si avvicinava a Probot, adattando la propria forma al pianeta, muovendo i tentacoli a tenaglia, come a volerlo afferrare in una morsa, stritolare.
- Ebbene esiste un Dio, nell'universo! - pensò Tbor.
- Mi chiedo solo perchè abbia atteso così a lungo, prima di porre fine alla spirale di follia in cui Ktobron ha gettato la nostra razza...
L'universo è sconfinato, ma anche in uno spazio infinito la preghiera di un fedele giunge al proprio dio, il cui orecchio è vigile ai più piccoli dettagli del cosmo. Certo, può essere necessario un tempo considerevole perché l'invocazione percorra le galassie.
Quasi venti cicli di Probot, addirittura.
"I passeggeri sono pregati di spegnere i telefonini e di non riaccenderli fino a quando non avremo raggiunto la destinazione"
Veramente inquietante questa notizia.
Il prossimo che vedo accendere un telefonino ancora in volo me lo mangio...
Adriano "the Machine" Barone
Ma l'attributo di "the Machine" non fu mai più azzeccato.
Scopritelo sul suo blog.
1.19.2008
Storia di Halion
è maggiore quanto maggiore è la sua massa.
Anonimo
Su Halion vivevano due specie razionali, le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Gli Oth erano alti esseri cerulei di forma tubolare, composti quasi esclusivamente d'acqua e ricoperti da un pigmento resinoso verdognolo; vivevano rinchiusi in un unico e immenso Palazzo liquido, nella zona desertica di Halion, nell'emisfero settentrionale.
I Nakl erano creature di sale di forma umanoide, pressoché incolori, poco più alte di un metro; vivevano nell'emisfero sud del pianeta, completamente ricoperto d'acqua, in una proteiforme Città di salgemma, che si estendeva a perdita d'occhio sull'unico, sconfinato oceano di Halion.
Entrambe le razze vivevano ignare l'una dell'esistenza dell'altra e, nonostante questo, condividevano un destino comune. Sia gli Oth che i Nakl, infatti, erano costretti a condurre un'amara battaglia quotidiana contro i rispettivi habitat, del tutto inadatti l'uno all'insediamento dell'altra razza.
Nello sterminato deserto di Halion non è mai caduta una singola goccia di pioggia: il calore è insopportabile lungo tutto l'arco dell'anno e le uniche risorse idriche sono esigue falde situate sotto centinaia di metri di sabbia rovente. In condizioni talmente avverse, la sopravvivenza degli Oth era costantemente appesa a un filo: se non avessero continuato a ricostruire all'infinito il Palazzo, questo sarebbe evaporato in poche ore. E se, per qualsiasi ragione, il loro unico rifugio liquido fosse svanito, gli Oth stessi si sarebbero volatilizzati nell'atmosfera cocente del deserto in poche decine di minuti.
Sarebbe riduttivo limitarsi a dire che ogni membro del popolo Oth dedicava l'intera vita alla costruzione del Palazzo. Quell'opera monumentale esprimeva la natura degli Oth in senso stretto, fonte primaria e scopo ultimo della loro misteriosa esistenza.
I Nakl erano costruttori abili e instancabili quanto gli Oth. Osservando l'emisfero meridionale di Halion dall'orbita del pianeta, le impossibili strutture architettoniche di salgemma dei Nakl sarebbero apparse come innumerevoli tasselli di un mosaico mistico e solenne. Una visione ammaliante e, allo stesso tempo, inquietante. Nonostante le frequenti catastrofi naturali che i Nakl erano costretti ad affrontare, la gigantesca Città svettava sull'oceano ad altezze impossibili, eretta su massicce piattaforme saline spesse anche alcuni chilometri. Per ogni edificio di sale sciolto sotto la furia degli uragani, i Nakl ne edificavano subito un altro in una regione differente.
Anche i Nakl, dunque, erano condannati a costruire all'infinito la Città, se non volevano venisse spazzata via dalle tempeste e dalle infiltrazioni d'acqua marina. L'esistenza di questa razza era almeno altrettanto misteriosa di quella degli Oth.
Con il passare dei secoli, e poi dei millenni, il Palazzo degli Oth e la Città dei Nakl raggiunsero la massima estensione possibile. Mentre le due razze portavano avanti, imperterrite, le proprie enigmatiche costruzioni, l'aspetto di Halion cambiò radicalmente.
La fluida fortezza degli Oth si distendeva ora sull'intero spazio un tempo occupato dal deserto. La Città dei Nakl, assorbita ogni singola goccia dell'oceano sottostante, si ergeva austera e inamovibile, grande quanto l'emisfero meridionale del pianeta. Inevitabilmente, arrivò il momento in cui gli Oth e i Nakl si accorsero di non essere gli unici abitanti di Halion. L'inedita visione di un'architettura monumentale aliena alla propria, produsse, tanto nei liquidi esseri tubolari quanto nelle piccole creature di sale, un'eterogenea fusione di nuove emozioni: turbamento ed euforia, apprensione e meraviglia. Per la prima volta nella loro intera esistenza, gli Oth interruppero la costruzione del Palazzo d'acqua e i Nakl quella della Città di sale.
La paura dell'ignoto stringeva nella sua morsa ogni singolo Oth e ogni singolo Nakl. Se i due antichi popoli avessero riconosciuto l'istinto ancestrale che si stava impossessando di loro, l'avrebbero chiamato per nome: guerra, ma, prima di quel giorno, né gli Oth né i Nakl avevano mai conosciuto questo impulso.
Gli Oth avevano costruito il Palazzo; i Nakl avevano eretto la Città. Nessuno di loro si era mai chiesto quale fosse lo scopo di queste opere immani. Allo stesso modo, quel giorno, nessuno s'interrogò veramente sul fine della nuova impresa che la propria razza stava per intraprendere: gli Oth avrebbero raso al suolo la Città dei Nakl; i Nakl avrebbero distrutto il Palazzo degli Oth.
Così, la superficie di Halion mutò definitivamente, assumendo la forma che oggi noi tutti conosciamo e veneriamo. Oggi, per ogni popolo dell'universo, l'emblematico e penoso destino degli Oth e dei Nakl rappresenta la somma allegoria della follia e della vacuità insite nella guerra. Oth e Nakl finirono per annientarsi a vicenda: i Nakl erano in grado di assorbire i liquidi vitali degli Oth grazie alla propria consistenza salina; gli Oth potevano sciogliere i corpi dei Nakl nell'acqua del proprio organismo.
Presto, le torri svettanti della Città dei Nakl precipitarono sul Palazzo degli Oth, squassandolo. Una muraglia d'acqua alta chilometri s'innalzò dal Palazzo e andò a rovesciarsi contro la Città… La reazione a catena fu inevitabile e ciò che richiese millenni per essere eretto crollò in pochi anni. Delle due antiche razze rimasero soltanto terribili cumuli di corpi e macerie, che, nei secoli, sedimentarono, prendendo infine la forma del cristallo.
Oggi, per le razze di ogni galassia, Halion rappresenta il Monumento della pace: un gigantesco, simmetrico, cristallo di salgemma sospeso nello spazio profondo.
Sono ancora in molti, tuttavia, a interrogarsi sulla vera natura di Halion… E di questa pace.
Alcuni addirittura si chiedono se l'oscuro e crudele destino degli Oth e dei Nakl non rappresentasse il prezzo di un dio particolarmente esigente.
Sofora
Solito lavoro?, avevo domandato. Le piacciono i fiori, aveva tagliato corto.
Non era un tipo loquace il capo.
La cliente aveva scelto la serra. Nel suo palazzo, all’ultimo piano. Cercai di visualizzare l’abbinamento cromatico di flora e sangue. Le donne ci pensano a queste cose. Entrai. Una foresta, più che una serra; un intricato labirinto di capitelli in ghisa, finte rovine romane e busti in gesso disseminati qua e là in una vegetazione rigogliosa. Un lungo loggiato verdeggiante e umido, illuminato naturalmente attraverso immense vetrate. Plumbago rosea, Eleagno, Pitosforo: una sfilata di vasi con nomi esotici marchiati su piccole placche d’ottone. Il caldo era soffocante. I fiori sprigionavano profumi penetranti. Mi fermai a osservare la scena nascosto fra i colori lilla e arancio di una buganvillea. La mia cliente stava sul fondo della veranda, di spalle, davanti a un alberello dal tronco globoso, costellato da grappoli di fiori bianchi. Ne accarezzava le foglie con un piccolo panno di seta, lo sguardo perso verso un rosone bagnato dal sole. Assaporai la sua corporatura esile ma ben proporzionata, i capelli biondi e lunghi, le mani sottili; indossava un leggero abito di lino rosa al ginocchio e sandali di pelle. A un tratto, posò la seta a terra e iniziò ad accarezzare il fusto dell’albero, lentamente, con entrambe le mani. Era in perfetta sintonia con l’atmosfera onirica dell’architettura. Viceversa, l’intensità acre dei profumi e il calore tropicale iniziavano a darmi alla testa. L’umidità era insopportabile. Restai immobile parecchi minuti, in trance olfattiva, madido di sudore. La voce della donna mi colse alla sprovvista: – Non aver paura, a te non farà nulla di male; sì Eve, anche tu mi mancherai molto – disse rivolta all’arbusto. Poi scoppiò in lacrime e allungò le braccia a cingerne il corpo, con la tenerezza con cui si stringe a sé un bambino. L’abbraccio durò il tempo che un rivolo di sudore m’imperlasse la fronte per colarmi fino ai piedi. Io non mossi un muscolo, ma improvvisamente la donna si voltò di scatto e parlò di nuovo, questa volta rivolta a me: – Non è necessario che si nasconda signore. Sono cieca.
Occhi lividi e più azzurri del cielo rotearono nell’aria, piantandosi nei miei dopo aver disegnato una spirale immaginaria. Un viso evanescente come la sua vita, pensai. Mi tastai il petto, la fondina era al suo posto, ma io ero a disagio, chissà perché. Mi avvicinai circospetto alla donna; stava sussurrando discorsi indecifrabili alle piante tutt’attorno, chiamandole per nome a una a una. Cercai di riprendere il controllo di me stesso sbirciando i nomi sulle etichette metalliche: Bosso, Viburno, Gelso Bianco… Affiancai un’aiuola multicolore – Tulipano, Camelia Black Lace, Ginestra – e la donna parlò di nuovo.
– Faccia quel che deve fare. Sono pronta – mi comunicò.
Mi fermai a un paio di metri da lei ed estrassi la pistola. Il silenziatore era già montato. Grondavo sudore. Un colpo solo alla testa, al centro della fronte, così doveva essere. La donna portò le mani incrociate al petto e protese leggermente in avanti il collo, che riluceva nel flusso silenzioso delle lacrime. Mi resi conto che non poteva avere più di trent’anni. Il mio indice era già un tutt’uno con il grilletto. Una leggera brezza scosse il vestito rosa della donna scoprendole un ginocchio bianco come il latte, il suo corpo vibrava impercettibilmente in attesa del proiettile. Era una creatura affascinante. Le piacciono i fiori… Avrei voluto esprimerle ciò che sentivo. Per un attimo, pensai addirittura di offrirle un’ultima possibilità. Ma ero troppo impressionato dal suo autocontrollo, dalla sua quieta rassegnazione. Una targhetta dorata m’informò che la pianta che stava accarezzando poco prima era una Sofora Japonica. Mirai alla fronte.
Il colpo risuonò ovattato, soffocato dalla stagnante densità dell’aria. La donna cadde indietro con leggerezza, sotto le fronde della Sofora, mentre un foro rovente le si schiudeva in mezzo alla fronte come una decorazione tribale. Mi chinai su di lei, le calai le palpebre sfiorandole il volto. Con tre dita le tastai il polso destro: nessun battito. Riposi l’arma, mi sfilai i guanti e aspettai la consueta scarica d’adrenalina. Rimasi a lungo immobile a osservare il cadavere, ma questa volta non arrivò. Al contrario, un sapore di ruggine fradicia si fece strada dal mio stomaco e risalì fino alle tempie, foderandole con un dolore sordo. Avevo la sensazione che il mio cervello stesse sprofondando in un acquitrino; non riuscivo più a connettere. Rimasi in quel torpore ipnotico per un tempo indefinibile, finché, con uno sforzo immenso, mi costrinsi a distogliere lo sguardo dal corpo riverso a terra della donna. Dovevo andarmene, e in fretta, sgranai gli occhi disorientato, alla ricerca dell’uscita. Fu allora che il mio sguardo cadde di nuovo sulla Sofora.
Quello che vidi mi tolse il respiro con violenza e il dolore appostato sotto gli zigomi si riversò nella testa con la furia di una diga appena sciolta. Dalle vetrate m’investì un fascio di luce bianca. Oleandri giganteschi si allungavano su di me. Dalla sommità della sofora, un liquido, trasudando come pece lungo il fusto e piovendo obliquo sulle infiorescenze candide, gocce di un liquido denso, trattenute dall’attrito con la peluria delle foglie e subito richiamate dalla forza di gravità, di un liquido fecondo e scarlatto stillavano fragorosamente sul volto della donna.
Sentivo un torrente scorrere fra le rocce.
possibilità
l’estasi statica di un sospiro lieve
sempre interi
come una parte rimanente
interi come l’unico attributo di una forma elementare
a grattare le ore come croste
di nostalgia futura
mascelle infossate dalla paranoia di scrivere per forza
un tempo eravamo capaci d’ascoltare
di stringere forte un oggetto in mano
di pregare
guardami ora opaco e traslucido
come una patina sporca su un vecchio corrimano
stillness
and melt away, before faded dawnings,
ready to drop with sleep
and still chanting loud. Of man
of seed, of god and death.
Get lost
the shades, nervous,
they get stained
and seem surrendered;
they tremble with vigil
as absorbed souls,
welcomed acquitted souls.
To comply with life: must be done
heedlessly, superficially.
I feel ants inside my skin,
upon eyes’ edges
vibrations catalyzed by deep places.
Space and room glued on,
precisely adhesive.
It’s the outline of a circle,
that someday breaks.
morning lust
window: hands moving through time
or along a neck… Night is gone.
I wonder if this all was awaiting
for me to waken,
I wonder where I wandered
while my eye-socket was throbbing
and gristles were grinding.
Is my breath being recorded
over some rickety detuned piano air?
In these moments I feel
like moving through uncoordinated scraps of proceedings,
dripping-dry from a cutting sickle
into unsteady footprints
likewise arcane globular stigmas round a cyclic
and cynical circle.
An inkling of deceptive waters.
Whether I’ve been fleeing or I’ve been pursuing,
but I was feeling thirsty,
and my fingers were moving just to con my own eyes.
So, it’s possibly me who’s writing now…
Imagining you writing something about me
imagining me writing something about you.
husk
A lank slab of instinct
mulls over in my sunken windpipe,
you know I can’t let you
slip off this shell…
You know we’ll just end up
unwrapping botched plastic films of fallow days,
leaving a scratch on the borderline, a worthless
accurate sign, impenetrable through the dusk.
Just to see who’s willing to breach
in the husk.
Feverishly
convulsing away
from the empty space we created,
how deep are the wells in which we’re able to fall…
Yeah, it started all again:
we’re exactly what we do pretend.
Converging gazes towards a selfless cruelty
until the outline of whatever that hurts
lose shape. Let it loose and focusless
while we rob vibrations,
one each other.
End is deafening approaching.
poesia per Tiziano
c’è mia zia col femore rotto,
dorme sempre, i sedativi.
Cinque minuti da casa mia
e m’incammino con Davide e Sara
dopo pranzo; intanto
chiamo Mirko al cellulare
per le date che dobbiamo suonare.
È un attimo lungo quando siamo ai Miracoli…
…Davide sbotta sei sempre al telefono;
Sara sta zitta, ma resta in ascolto;
io sbircio il banco di libri lì a fianco,
trovo belle occasioni ogni tanto.
Mirko mi gela, con una parola:
Tiziano. Una sola.
E mentre entro nell’ospedale
penso alle volte che ho visto Tiziano
a quando mi aveva dato Viaggiare
che ho ascoltato poco perchè non mi piace
e mentre cammino nei corridoi
mi sento in colpa verso di lui,
la cosa più triste per me è proprio questa:
non lo conoscevo abbastanza.
Sono arrivato: Ortopedia.
Ma ho poca voglia di entrare
resto appoggiato alla parete a pensare,
era a Caselle forse la cosa
la festa all’aperto della sala prove
suonavamo tutti e pioveva,
eccolo là Tiziano col braccio in alto
che picchiava forte il rullante
e cantava.
Lì ho pensato che era felice
sì in quell’istante era proprio felice
era quel pezzo che si chiama Guai
e lui cantava forte scandendo la i.
Entro in reparto e cerco la stanza
butto un’occhiata, mia zia sta dormendo
mi sembra una scusa abbastanza buona,
non entro.
Era da un po’ che lo sapevo
Tiziano sta male
volevo andare a Borgo Trento a trovarlo
ma sono a Venezia in un altro ospedale,
mi viene quasi da vomitare
e scappo via dal fottuto ospedale.
Me ne torno a casa
e voglio scrivere tutto
tutto quello che mi viene in mente:
anche di quella volta
con Papa Winnie alle Cupole
e Tiziano che ballava,
ballava fra la gente.
saga
ma fu tutt’altro:
catartica esibizione di debolezze
in overdose d’alcool e di fratellanza
per decomprimere i lobi
deframmentare convinzioni profonde.
Dio che hai voluto farmi tornare sulla strada
sei perdonato
Dio che hai voluto farmi esitare
sei perdonato
Dio che hai sospeso il flusso del tempo
per un impercettibile istante sufficiente
a intrecciare nuovi ignoti tessuti
nel mio essere ora ti maledico
con tutto lo stomaco avvitato
e bramo le tue viscere da divorare
ma presto sarai perdonato
Dio dell’irresolutezza,
sarai perdonato.
Ci sono cose dotate di forma e significato
che lo vogliamo o no,
le trasferiamo immaginate, sciolte,
nell'occhio impacciato
e tuttavia risplendono compiute
capillari crepitanti sotto la retina
congegni esistenziali d’autodistruzione.
La fallita festa del rancore,
una trapunta di spilli aguzzi
per drenare il sangue marcio
ricalcificare l’idea di sè
incastonata nella matrice arteriosa del tempo.
E in tutto un corpo che suda
un corpo che schiocca e si tortura
si tritura dall’interno
trasuda sete di simboli solenni
stratificata nel sesso
un cuore che batte che batte in apnea
che spacca le tempie forgiando l’idea.
L’idea del mondo
e del mondo nel corpo,
il corpo di pietra
il corpo faretra.
gioco di pazienza
in un mondo che non conosco.
Un nastro registra il rumore
del mio respiro…
un piano scordato, un'eclisse lenta.
Coltivare amarezza per non morire solo:
isteria iniettata nell'essere,
l'inganno è farci credere che ne esista uno.
Sentiero senza senso, lecco l'acido
che gocciola dall'iride del tempo.
Incominciamo a illudere ogni specchio
di poter riflettere sé stesso;
all'inizio è divertente.
Vien voglia di rimproverare il tempo,
ma non c'è più tempo.
notte a Venezia
torturati in cronico sovraccarico cerebrale
parole impastate pesanti silenziose suppliche
inspiraespira
le maschere incollate con ferocia sulle facce friabili
non si sta in piedi ci si sbrana ci si succhia
l’ultima goccia di sangue
dagli occhi slabbrati iniettati d’apocalisse
espirainspira
le cicatrici fasciate con acido solforico
bagnando le dita nell’emorragia gelida dell’infinito
il luogo oscuro della danza asincrona
l’interfaccia frigida
in cui respiriamo la nostra decomposizione.
Introducing babbonatalemorto...
freedom bondage
di quelle tipo
il più bello dei mari o
she walks in beauty.
Quelle poesie ridicole e commoventi
al tempo stesso,
che evocano immagini surreali;
baci che colano come fonti,
nella tazza del cuore.
Quelle poesie a cui le parole mancano,
perché la presenza dell’amore
le brucia come foglie secche.
Oppure di quelle scritte di notte,
in un buio che trasuda di desiderio,
che parla di corpi avvinghiati,
o di corpi immaginari che
non si toccano mai.
Me ne andrebbe bene anche una cinica,
che non nasconda a sé stessa
una consapevolezza antica
eppure crudele.
Che non parli di mistero, né di dolore
né di allucinazioni fiammeggianti.
Mi piacciono anche quelle disperate,
sospese sul ciglio della catastrofe;
come quelle di Pavese,
piccole apocalissi incastonate
in baci falliti.
Poi sappiamo entrambi che sono
insuperabili
quelle di Carver, così schiette,
così umane da far paura.
Viviamo in tempi infami,
ma l’ha già scritto Verlaine;
è l’amore che è essenziale,
lo ha già scoperto Pessoa.
Vorrei scriverti una poesia d’amore,
che sembri tutt’altro;
che non bruci al tatto,
che abbia la suspense
dello scontrino della spesa.
Una poesia scritta senza alcuna ragione,
che puoi gettar via appena desideri,
per noi che siamo tristi nella prigione,
per noi che siamo tristi anche da liberi.
ti vedo
che abbiamo frequentato
e quelle vivide vibranti
le case piene
gli amori spenti
che abbiamo distillato in gocce
d'istinto e dipinto
nelle parole
l'umore nero
che ha accompagnato i giorni
i giorni infiniti imprevedibili
quando si faceva la fame
i gusti fini ed esigenti
da artisti navigati
che ostentavamo e ci scambiavamo
come francobolli rari
i suoni cupi lenti
e quelli frenetici deliranti
non è un amore
eppure brucia come un ago infisso nel ricordo
ancora, e ancora
come un richiamo distante, pagano
nel sonno ti vedo
suonare, furente
la lingua fuori
lontano
nuovo anno
in una paradossale
gabbia
come non c’incatenassero già abbastanza
gli occhi.
Abbiamo esplorato ogni gamma
d’espressioni possibili,
avvinghiati come amanti
incoscienti;
origliando alla porta
ti ho ricoperta di saliva
per passare il tempo, far passare il tempo
nella cruna d’un ago:
fra l’orecchino che porti sotto una piega
dell’orecchio destro
e il tatuaggio tribale
che hai scoperto sulla mia spalla.
L’ago che ti ha forato la membrana auricolare,
l’ago che mi ha inciso la pelle del braccio…
per un istante,
come fossero lo stesso ago.
Ci conosciamo ancor meno
dei protagonisti d’un appuntamento
al buio. Ci leggiamo in profondità,
come libri tenuti sullo scaffale
per anni, e poi aperti
solo in questo momento
perché è quello giusto.
cronologia di sopravvivenza
un pugno sferrato sul volto
un bacio dopo una carezza
una certa parola dopo una certa altra
il tuono dopo il lampo
la morte
Attendere un treno, la partenza,
attendere in ospedale,
una cura
per avere tempo abbastanza, in futuro,
per attendere.
Le parole più indicate per guarire
spesso avvelenano
come il veleno più spietato
può risvegliare dal torpore dell’esistenza.
Renderci visibili a noi stessi,
farci vomitare
i sè stessi di troppo.
Attendere che il corpo risponda alle scelte
della mente.
Attendere che lei si addormenti, per osservarla.
Attendere che i corpi si bagnino, per unirli.
Attendere la fine della tempesta
o attendere che piova, per sentire il suono delle gocce
sulla pelle.
Attendere che si addormenti, finalmente...
Unire le labbra alle sue, nel sonno.
Attendere che tutto finisca, esploda,
svanisca.
E rimanere soli, col silenzio che circonda
la testa di Beethoven.
Attendere che la luce ritorni
per nascondersi di nuovo; attendere il buio,
per non vedersi più riflessi
nello specchio.
Attendere il giorno e l’ora giusti
né un momento prima né uno dopo,
per le ultime parole, l’ultimo gesto,
i più importanti.
L’istante per cui abbiamo atteso così tanto.
grazie a Derek Walcott per il silenzio che circonda le testa di Beethoven
ti sei addormentata
Mi attengo a tanta saggezza...
Ti sei addormentata mentre ti grattavo la schiena.
Allora ho sganciato la mano
dalla tua camicetta,
e sono balzato in piedi agile
come un’anguilla,
a scaldare l’acqua per il tè.
Me lo bevo e tu russi piano.
Ti vedevo già stanca oggi,
camminando per Corso Buenos Aires
che invece era Viale Monza.
Sono solo le dieci e mezzo.
Ti vedevo stanca rimestando
i piselli fra l’aglio e il prosciutto,
col Nero d’Avola nel bicchiere.
Abbiamo mangiato una bistecca grande
con le verdure grigliate
e il Nero d’Avola
e il Cirò.
Hai tutto il diritto di essere stanca.
1.18.2008
È morto Bobby Fischer
La notizia mi rattrista molto.
Chi è interessato può trovare una rassegna stampa completa qui.
In onore a Bobby, mi convincerò anch'io di essere vittima di un complotto internazionale: dev'essersi sparsa la voce che ho aperto un blog e l'hanno fatto fuori come atto dimostrativo.
Per chi sa poco o nulla di Fischer e degli scacchi, raccomando questo bel documentario di Davide Fasolo, che potete trovare su Nulliversi.
C'è anche il mitico Daniele Genocchio dentro, che invece trovate spesso in... Scighera
That's poker baby!
Dennis Cooper - god jr
Mi ha colpito, ma non convinto fino in fondo.
I tipi di Carmilla non sono convinti per niente.
Guardatevi il book trailer.
Ma chi sei?
La delego a un link (dove trovate quello a cui ho dedicato più tempo nella vita) e a una cazzatina scritta per il concorso 100 parole della Feltrinelli.
Mothercare
I dischi li potete accattare in molti posti, che vi linko qui a fianco.
Nei primi anni ’90 rubai molti libri. Un numero esorbitante stimandolo a memoria.
Non avevo soldi e morivo di fame, quindi rubavo libri. All’inizio solo nella mia città, poi in tutto il Nord Italia: saccheggi mirati e mai troppo ingenti. La prima volta fuori dal Veneto fu alla Feltrinelli di Bologna; Il pasto nudo di Burroughs, credo. Poi toccò a Firenze.
Ci presi gusto in fretta alle Feltrinelli: titoli eccellenti, atmosfera rilassata, commessi poco invadenti. La mia formazione culturale fu un lungo tour di librerie Feltrinelli; se oggi sono un aspirante scrittore lo devo in gran parte a voi. I miei dati sono riportati sulla cartolina, potete denunciarmi.
Così divento un caso letterario.
Così almeno posso dire che le ho provate tutte...
Avete presente il blocco, no?
Anzi, i blocchi, quello dove vorresti scrivere e quello che non ti fa scrivere.
E tutti mi dicono "fatti il blog, fatti il blog".
OK, ho fatto il blog (che già come parola assomiglia a blocco e un po' mi preoccupa...).
Intanto ci butto dentro un po' di roba, poi vediamo che succede.
Bloggo o son desto?