Solito lavoro?, avevo domandato. Le piacciono i fiori, aveva tagliato corto.
Non era un tipo loquace il capo.
La cliente aveva scelto la serra. Nel suo palazzo, all’ultimo piano. Cercai di visualizzare l’abbinamento cromatico di flora e sangue. Le donne ci pensano a queste cose. Entrai. Una foresta, più che una serra; un intricato labirinto di capitelli in ghisa, finte rovine romane e busti in gesso disseminati qua e là in una vegetazione rigogliosa. Un lungo loggiato verdeggiante e umido, illuminato naturalmente attraverso immense vetrate. Plumbago rosea, Eleagno, Pitosforo: una sfilata di vasi con nomi esotici marchiati su piccole placche d’ottone. Il caldo era soffocante. I fiori sprigionavano profumi penetranti. Mi fermai a osservare la scena nascosto fra i colori lilla e arancio di una buganvillea. La mia cliente stava sul fondo della veranda, di spalle, davanti a un alberello dal tronco globoso, costellato da grappoli di fiori bianchi. Ne accarezzava le foglie con un piccolo panno di seta, lo sguardo perso verso un rosone bagnato dal sole. Assaporai la sua corporatura esile ma ben proporzionata, i capelli biondi e lunghi, le mani sottili; indossava un leggero abito di lino rosa al ginocchio e sandali di pelle. A un tratto, posò la seta a terra e iniziò ad accarezzare il fusto dell’albero, lentamente, con entrambe le mani. Era in perfetta sintonia con l’atmosfera onirica dell’architettura. Viceversa, l’intensità acre dei profumi e il calore tropicale iniziavano a darmi alla testa. L’umidità era insopportabile. Restai immobile parecchi minuti, in trance olfattiva, madido di sudore. La voce della donna mi colse alla sprovvista: – Non aver paura, a te non farà nulla di male; sì Eve, anche tu mi mancherai molto – disse rivolta all’arbusto. Poi scoppiò in lacrime e allungò le braccia a cingerne il corpo, con la tenerezza con cui si stringe a sé un bambino. L’abbraccio durò il tempo che un rivolo di sudore m’imperlasse la fronte per colarmi fino ai piedi. Io non mossi un muscolo, ma improvvisamente la donna si voltò di scatto e parlò di nuovo, questa volta rivolta a me: – Non è necessario che si nasconda signore. Sono cieca.
Occhi lividi e più azzurri del cielo rotearono nell’aria, piantandosi nei miei dopo aver disegnato una spirale immaginaria. Un viso evanescente come la sua vita, pensai. Mi tastai il petto, la fondina era al suo posto, ma io ero a disagio, chissà perché. Mi avvicinai circospetto alla donna; stava sussurrando discorsi indecifrabili alle piante tutt’attorno, chiamandole per nome a una a una. Cercai di riprendere il controllo di me stesso sbirciando i nomi sulle etichette metalliche: Bosso, Viburno, Gelso Bianco… Affiancai un’aiuola multicolore – Tulipano, Camelia Black Lace, Ginestra – e la donna parlò di nuovo.
– Faccia quel che deve fare. Sono pronta – mi comunicò.
Mi fermai a un paio di metri da lei ed estrassi la pistola. Il silenziatore era già montato. Grondavo sudore. Un colpo solo alla testa, al centro della fronte, così doveva essere. La donna portò le mani incrociate al petto e protese leggermente in avanti il collo, che riluceva nel flusso silenzioso delle lacrime. Mi resi conto che non poteva avere più di trent’anni. Il mio indice era già un tutt’uno con il grilletto. Una leggera brezza scosse il vestito rosa della donna scoprendole un ginocchio bianco come il latte, il suo corpo vibrava impercettibilmente in attesa del proiettile. Era una creatura affascinante. Le piacciono i fiori… Avrei voluto esprimerle ciò che sentivo. Per un attimo, pensai addirittura di offrirle un’ultima possibilità. Ma ero troppo impressionato dal suo autocontrollo, dalla sua quieta rassegnazione. Una targhetta dorata m’informò che la pianta che stava accarezzando poco prima era una Sofora Japonica. Mirai alla fronte.
Il colpo risuonò ovattato, soffocato dalla stagnante densità dell’aria. La donna cadde indietro con leggerezza, sotto le fronde della Sofora, mentre un foro rovente le si schiudeva in mezzo alla fronte come una decorazione tribale. Mi chinai su di lei, le calai le palpebre sfiorandole il volto. Con tre dita le tastai il polso destro: nessun battito. Riposi l’arma, mi sfilai i guanti e aspettai la consueta scarica d’adrenalina. Rimasi a lungo immobile a osservare il cadavere, ma questa volta non arrivò. Al contrario, un sapore di ruggine fradicia si fece strada dal mio stomaco e risalì fino alle tempie, foderandole con un dolore sordo. Avevo la sensazione che il mio cervello stesse sprofondando in un acquitrino; non riuscivo più a connettere. Rimasi in quel torpore ipnotico per un tempo indefinibile, finché, con uno sforzo immenso, mi costrinsi a distogliere lo sguardo dal corpo riverso a terra della donna. Dovevo andarmene, e in fretta, sgranai gli occhi disorientato, alla ricerca dell’uscita. Fu allora che il mio sguardo cadde di nuovo sulla Sofora.
Quello che vidi mi tolse il respiro con violenza e il dolore appostato sotto gli zigomi si riversò nella testa con la furia di una diga appena sciolta. Dalle vetrate m’investì un fascio di luce bianca. Oleandri giganteschi si allungavano su di me. Dalla sommità della sofora, un liquido, trasudando come pece lungo il fusto e piovendo obliquo sulle infiorescenze candide, gocce di un liquido denso, trattenute dall’attrito con la peluria delle foglie e subito richiamate dalla forza di gravità, di un liquido fecondo e scarlatto stillavano fragorosamente sul volto della donna.
Sentivo un torrente scorrere fra le rocce.
1.19.2008
Sofora
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questo mi è piaciuto quando l'ho letto la prima volta e mi piace anche adesso.
RispondiEliminaanonimo-laura delle mele (blu) che ti ha scovato.
!
ciao laura delle mele (blu)!
RispondiEliminaCome stai?
u, bene. di là ci sono gli operai che mi montano la cucina. rimane da psicanalizzare la storia ottomana, ma bene, come sempre.
RispondiEliminaMi manca Gui.
anche a me manca l'insalata che ride...
RispondiEliminaa quando un tuo blog?