1.29.2008

Attesa

Stare solo, senza parlare con nessuno, narcotizzarmi.
Una scorta sufficiente di batterie di ricambio. Questo mi basta. Non posso più smettere di ascoltare questo disco. Meshuggah, Catch 33. Da mesi, senza sosta, spostandomi continuamente, vivo immerso in questa musica, vivo grazie a questa musica. Più o meno dal giorno in cui ho parlato con l’oncologo.
Parlare è una parola grossa, perché io, in effetti, sono rimasto lì inerte a subire le sue parole attente, le sue frastornanti delucidazioni. Mentre il dottore parlava, ripassavo mentalmente i pattern ritmici più intriganti di Catch 33. In lingua ebraica meshuggah significa “folle”. Quando ci penso mi viene sempre in mente la leggenda dell’Ebreo Errante. Forse perché è proprio questo che sono diventato, un essere nomade, in fuga continua, anestetizzato dal silenzio assordante di ciò che mi attende, di ciò che mi cresce dentro, da qualche parte. Il dottore ha voluto essere schietto – voglio essere schietto con lei –, ha trovato inutile tergiversare sulla cosa – trovo inutile tergiversare sulla cosa –, mi ha detto come stanno le cose fin nei minimi dettagli – le dirò le cose come stanno fin nei minimi dettagli.
Proprio in quell’istante io ero giunto mentalmente alla parte centrale del disco, quella più atmosferica, quasi ambient, in cui la voce di Tomas Haake, trasformata dal vocoder, recita quelle parole così taglienti, così pesanti. Parole che mi tengono in vita come amuleti taumaturgici:

Treacherous this deceit / to make no choice matter / To have and yet lose yourself / until finally all reasons why are forgotten / To live through one’s own shadow / Mute and blinded / is to really see / Eclipse the golden mirror / and the reflection is set free.

Se l’oncologo avesse potuto sentire quei versi rimbalzarmi in testa come fiammeggianti sfere di cristallo, avrebbe capito. Avrebbe visto la situazione in un’ottica diversa, allora, abbandonando la sua logica così banalmente meccanicista. Invece disse: – Dobbiamo operare il più presto possibile. Non c’è tempo da perdere.
Ma io ero già in viaggio e non sentivo più nessun tipo di dipendenza dal tempo. Con la mente, ero già proiettato alle probabili tappe del mio esilio spirituale: Agrigento, Barcellona, Lisbona, Praga, Budapest, Bruxelles, Amsterdam, Copenhagen, Stoccolma, Umea.
– Mi dispiace dottore, ma dobbiamo rimandare il mio ricovero. Sto per partire per un viaggio, un lungo viaggio – mi sentimmo dire, io e l’oncologo.
La sera stessa sono montato sul primo treno che mi sono trovato davanti: Vienna. Ho iniziato a tenere un diario dettagliato dei miei spostamenti. A Vienna ho dormito da vecchi amici che già anni prima avevo promesso di andare a trovare, senza mai riuscirci. Ma ora, improvvisamente, avevo tutto il tempo che volevo a mia disposizione.
– Si tratta di pochi mesi. Non posso darle maggiori speranze, nella sua situazione – questa la lapidaria valutazione dell’oncologo. Eppure, quei pochi mesi ipotetici mi apparivano come un intero universo, improvvisamente calato a circondare la mia essenza, a proteggerla come un antisettico, eterno guanto di lattice.
Posso dirlo: sono stato felice, da quel momento in poi, e lo sono ancora. La solitudine non riesce più a toccarmi. Ho qualcosa di cui scrivere, le parole mi escono dalla penna senza bisogno di metterle prima in ordine nella testa. Percepisco una sinuosa ispirazione scanalare le mie ossa, portare alla luce verità celate da una lunga prigionia nella sudicia voliera del tempo.
Da Vienna mi sposto a Lubiana, poi in Kosovo, poi di nuovo su a Nova Gorica. Seleziono attentamente i treni più diretti. Nonostante tutto, non mi va di perdere tempo nei cambi. Dall’ex-Jugoslavia prendo un battello per la Puglia. Bari, Reggio Calabria, poi la Sicilia.
Lercara Friddi. Vado in cerca di tutto e di niente, una ricerca archeologica, ma anche archetipica. Ma nessuna risposta, nessun racconto mi possono ormai soddisfare. Non avere più coscienza della differenza fra verità e menzogna, ecco cosa voglio.


I float through physical thoughts / I stare down the abyss of organic dreams / All bets off / I plunge / Only to find that self is shed

Risalgo l’Italia e l’Europa: Budapest, Praga, Bratislava. Sono convinto che, spostandomi continuamente e dovendo ogni giorno ricalibrare le mie coordinate linguistiche, culturali e metereologiche, anche l’intrusa concrescenza di materia necrotica incastrata da qualche parte nel mio corpo si troverà disorientata, costretta a sforzi sempre maggiori per sopravvivere, per sopravvivermi. Bruxelles, Gent, Amsterdam, Utrecht, Harleem, e infine Copenhagen. Sono io ora l’intruso, l’organismo parassita. Io stesso sono divenuto un cancro per il mio cancro. Lo sentivo salire già da mesi, dal rene sinistro attraverso il sistema linfatico, verso le pareti laterali dei polmoni, lo stomaco, verso la parte superiore del mio corpo, i centri vitali fondamentali, come un virus che di terminale in terminale si propaga in una rete, con una lentezza feroce. Ora io lo costringo a una schizofrenica deambulazione, a un’altrettanto feroce assenza d’immobilità.

Drowning in the endless sky / An ever-downward dive / only to surface the sewage of indecision / on which all sense of self is afloat

The vortex-acceleration a constant / Resolute in purpose its choking flow

Percorro a piedi il lungo ponte sull’Oresund, una lingua aliena piovuta per caso sul mare del Nord. Finalmente in Svezia, ma il viaggio è ancora lungo e le condizioni atmosferiche sono sempre più avverse. Da qui in poi mi muovo solo attraverso autostop. La notte frequento assiduamente pub, discoteche, night club e tutte le attrazioni notturne offerte da questi luoghi in cui la notte sembra non finire mai. Dormo un po’ dove capita. I soldi finiscono in fretta, ancora prima di arrivare a Stoccolma.
Passano due mesi in cui rischio seriamente di morire di fame, vivendo per la strada, a Orebro, non distante dalla capitale, con un freddo spietato a mangiucchiarmi le ossa.
Mi piacerebbe telefonare al mio dottore, fargli sapere che sono ancora vivo, dopo quasi sei mesi, contro le sue previsioni, e che se morirò sarà per fame, per mancanza di cibo, di qualcosa da divorare, e non divorato dal cancro. Nemmeno dilaniato dall’attesa. Ma ormai il tempo non ha più alcuna forma, alcun valore per me. L’unico ritmo a cui la mia esistenza si allinea, a cui la mia mente si piega è quello della musica che ascolto ininterrottamente. Non mi sento più nemmeno umano, avrei dovuto essere già morto. Forse lo sono e non lo ricordo.

A stagnant flow of endings. Un-time unbound. Merging to form the multi-none

Forse questo è solo un sogno. Un sogno di qualcun altro.
Se nel mio corpo esiste veramente un altro corpo, se nel mio essere si è insinuato un altro essere, se la mia mente è un labirinto di specchi in frantumi... Che cosa mai dovrei attendere? Perché dovrei arrendermi alla vuota forma dell’attesa? Perché dovrei rimanere immobile finché mi è concessa l’effimera medicina della fuga? Finché posso pensare, scrivere, ricordare...
Ricordi della mia infanzia, di mio padre. Ero solo un bambino e non sapevo ancora nulla della vita, della morte. Ma facevo tante domande a mio padre, sulla vita e sulla morte. E c’era una cosa che lui finiva spesso per dirmi: - Sai, io vorrei morire facendo l'amore con una donna, e non marcendo lentamente in un letto d’ospedale.
Io non capivo, ma rimanevo affascinato da queste parole, profondamente affascinato.
E solo ora capisco.
Per questo non mi posso fermare, nemmeno per un secondo.
Troverò un modo per arrivare a Stoccolma, prima o poi; m’imbarcherò su un peschereccio o qualcosa di simile. Non è un lungo viaggio fino a Umea, in nave.
Là incontrerò i folli artefici, esibirò una risultanza frattale della loro schizoide creazione, diverrò tutt’uno con i mille esseri che vivono in di me, uno nel tutto in cui tutti siamo.
Tat Twam Asi.

Vision will blind / Severance ties / Median am I / True are all lies

Nessun commento:

Posta un commento